Covid, gli irresponsabili della mobilità

Covid, gli irresponsabili della mobilità

L’ultimo Dpcm invita le persone a fruire di mezzi di trasporto solo per esigenze lavorative, di studio, per motivi di salute

L’ultimo Dpcm firmato dal premier Conte continua a far discutere. Su più fronti. Come abbiamo raccontato ieri tra i primi a prendere posizione contraria alle scelte del governo sono stati gli operatori della cultura. Anche il settore sanitario non era rimasto completamente soddisfatto da alcune misure messe in campo con l’ultimo provvedimento. Tanto da spingere anche pezzi di maggioranza a sottolineare alcune mancanze. In una nota congiunta i senatori emiliani del M5S Mantovani, Lanzi, Croatti e Montevecchi hanno scritto che le responsabilità vanno ricondotto ai ministeri dei Trasporti e della Sanità.

Il Dpcm firmato ieri da Conte invita le persone a fruire di mezzi di trasporto solo per esigenze lavorative, di studio, per motivi di salute. Un invito. Non un obbligo. Facile immaginare che non sarà accolto da tutti. Ma quand’anche fosse così, ci sono territori in cui il tpl soffriva molto già prima della pandemia e dove è stato impossibile sin da maggio rispettare il distanziamento fisico, soprattutto negli orari di punta. Per questo nel decreto Rilancio erano state inserite al comma 4 dell’articolo 229 misure per incentivare la mobilità sostenibile.

Il trasporto pubblico locale rappresenta la principale criticità. Nonostante il comitato tecnico scientifico abbia sottolineato la necessità di riorganizzazione la mobilità con il coinvolgimento attivo delle istituzioni locali e dei mobility manager, ciò non è avvenuto. Come ha ricordato pochi giorni fa il Managing director di Push, Salvatore di Di Dio, «sono 12.848 le istituzioni pubbliche in Italia che dall’entrata in vigore del dm del 27 marzo 1998 avrebbero dovuto dotarsi di un piano spostamenti casa-lavoro per gli oltre 3 milioni di dipendenti». I casi in cui un piano è stato approntato si contano sulle dita di una mano, come il Bike to work lanciato a Talamona, in provincia di Sondrio.

A questi numeri vanno aggiunte «le 43.741 le scuole pubbliche in Italia, raccolgono complessivamente 7.906.107 alunni e 872.268 professori (senza contare il personale scolastico) e con la legge 221 del 28 dicembre 2015 si sarebbero già dovuti dotare di un Mobility Manager scegliendolo su base volontaria e senza riduzione del carico didattico (e senza soldi)», ricorda Di Dio. Ed ancora fra le 4.017 e 23.647 aziende con più di 100 dipendenti con un intervallo di dipendenti tra i 2 milioni e 300 mila e i quasi 4 milioni, che verosimilmente non nomineranno un Mobility Manager e non redigeranno un Piano di Mobilità Aziendale.

«Ciò che abbiamo sprecato in questi mesi – scrive Salvatore Di Dio – è l’opportunità storica di rimodellare la domanda e l’offerta di trasporto, ripensando con metodo e riprogettando con ambizione il futuro della mobilità in Italia. Inutile sottolineare come tutto ciò fosse già nell’aria, e tutti i nostri accorati tentativi di questi mesi anticipassero l’inutile stupore del Comitato Tecnico Scientifico».

Ciro Oliviero

Redazione
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