Solo 30mila domande sono state presentate per la regolarizzazione dei braccianti e non uccidono il caporalato
Ricorderemo al lungo le lacrime dell’ex ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova. Era maggio dello scorso anno quando nella consueta conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, in occasione della presentazione del Decreto Rilancio, la titolare del Mipaaf spiegava la norma fortemente voluta – e che fece tremare già allora il governo – sulla regolarizzazione dei migranti. «Ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio – scrisse su Facebook la Bellanova –, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi. Da oggi lo Stato è più forte del caporalato».
Peccato che la misura si sia poi rivelata un vero flop. A fronte di 207 mila domande di realizzazione dei rapporti lavorativi per i dipendenti senza permesso di soggiorno (più del 60%) sono stati solo 1.084 i lavoratori in nero emersi. La norma, ricordiamo, era prevista per tre categorie: colf, badanti e lavoratori agricoli. Il fallimento della misura è confermato dai numeri: 177 mila su 207 mila lavoratori, ovvero l’85 per cento del totale, sono state presentate da datori di lavoro che intendevano regolarizzare lavoratori domestici o addetti alla cura della persona. E per il lavoro agricolo? Solo 30 mila domande.
Come preannunciato da molte associazioni di categoria e da una fetta di quella maggioranza (i Cinquestelle per capirci) alla fine quella norma si è rivelata solo una sanatoria che nulla o poco ha cambiato per il caporalato. Negli ultimi trent’anni si sono registrate ben 8 sanatorie. Questa probabilmente non sarà l’ultima. Fatto sta che resta una costante: continuiamo a gestire l’immigrazione con strumenti emergenziali e inadeguati.
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