Occorre riequilibrare il sistema del welfare

Occorre riequilibrare il sistema del welfare

L’intervista alla vicepresidente della commissione Affari sociali sul divario tra nord e sud nella ripartizione dei fondi per i servizi sociali

La legge 178 del 30 dicembre 2020 prevede la distribuzione dei fondi ai Comuni per i servizi sociali. La ripartizione dei fondi penalizza pesantemente il sud al quale andrà solo il 18 per cento dei fondi. Come ha denunciato ieri il Portavoce del Forum del Terzo Settore della Campania, Giovanpaolo Gaudino, questa decisione del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando «penalizza i cittadini, in particolar modo quelli fragili». Ne abbiamo parlato con la vicepresidente della commissione Affari sociali alla Camera, Michela Rostan.

Il Mezzogiorno è l’area del Paese a maggior disagio sociale. Come si può dunque giustificare che nella ripartizione dei fondi per i servizi sociali il sud riceva solo il 18 per cento?
«Sul piano dei servizi sociali scontiamo come sistema Paese un deficit inaccettabile. In primis nei confronti dell’Europa. La spesa pro capite media Ue ammonta a 616 euro contro i nostri 313 euro. Una disparità che poi si riverbera in modo ancor più eclatante nella distribuzione delle risorse tra le diverse regioni. Sul piano del welfare locale non è giustificabile che si passi dai 569 euro della Provincia di Bolzano ai 27 della Calabria. Occorre riequilibrare quanto prima questo dato. È del tutto evidente che se il Sud usufruisce di un quinto delle risorse complessive il gap nella fruizione dei Livelli essenziali delle prestazioni non si ridurrà mai. L’articolo 117 della Costituzione rischia di rimanere dunque lettera morta. Distribuire le risorse in modo paritario non vuol dire essere equi. Bisogna procedere con l’analisi puntuale delle carenze organiche e strutturali  dei singoli comuni e procedere con  misure ad hoc. Se bisogna, ad esempio, raggiungere il traguardo di un assistente sociale ogni 5 mila abitanti, si deve partire dall’analisi dei bisogni dei singoli comuni. Così facendo si potrà ottenere una redistribuzione più efficace delle risorse».

In Campania su 52 distretti ben 31 non riceveranno fondi. Questo significherà arretrate ancor più nel sostegno ai più fragili.
«Siamo senza dubbio all’anno zero del welfare e a farne le spese saranno, come sempre, i più fragili. L’emergenza Covid-19 ci ha sbattuto in faccia le profonde iniquità del nostro sistema di welfare, che si è sgretolato miseramente di fronte alla pandemia. Le famiglie sono rimaste da sole ad affrontare i loro problemi. Servizi essenziali come quelli terapeutici e fisioterapeutici, dell’assistenza psicologica, del sostegno alle disabilità, della prevenzione e del controllo dell’avanzamento delle patologie croniche e di quelle tumorali, sono stati ridotti se non completamente sospesi. È chiaro che i costi sociali della pandemia li hanno pagati i più deboli. Anche in questo caso la distribuzione dei fondi tra i diversi distretti sanitari non può prescindere da un’attenta analisi dei fabbisogni e, soprattutto, da una diversa organizzazione che veda la presenza in ruoli di coordinamento anche delle risorse relative ai servizi sociali. Stiamo lavorando ad una proposta politica per un welfare di prossimità che sia in  grado di ricostruire la rete sociale a sostegno dei cittadini comprendendone le necessità e recependone le istanze in modo tempestivo e capillare. Un nuovo modello che riporti al centro delle azioni dei distretti la qualità dei servizi e non le esigenze di bilancio».

Anche alla luce di queste decisioni del governo, reputa necessario accelerare la conversione degli ambiti sociali in aziende consortili, così che possano reperire fondi anche autonomamente?
«La ritengo la naturale evoluzione del sistema del welfare. In un momento nel quale gli enti locali sono senza fondi e limitati dalle esigenze legate alle norme di bilancio, solo una forte spinta verso nuovi modelli organizzativi, più autonomi ed efficienti, può essere una valida via d’uscita. Ci sono tante competenze che vengono mortificate puntualmente dai tempi oramai anacronistici della burocrazia. Se andassimo a contare i fondi persi a causa dei ritardi e delle macchinosità della pubblica amministrazione nei progetti in partenariato, ad esempio, saremmo in grado di mettere in campo un’altra finanziaria. All’interno di ambiti regolamentati con obiettivi chiari e condivisi è giusto che ognuno riesca a mettere in campo le proprie competenze e professionalità senza dover subire gli effetti negativi dei ritardi e delle inefficienze altrui».

Cgil, Libera e Legambiente Campania hanno chiesto alla Regione Campania di approvare un provvedimento che stoppi il lavoro nei campi nelle ore più calde, sulla falsa riga della legge della Puglia. Pensa che ciò possa bastare per tutelare i braccianti?
«La ritengo un’iniziativa assolutamente condivisibile. Un primo passo importante a tutela di una delle categorie più sfruttate della nostra comunità. Dopo la previsione nel decreto Rilancio delle misure per la regolarizzazione dei braccianti agricoli e dei lavoratori dei settori dell’allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura, assistenza alla persona e lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare, assistiamo ancora a fenomeni di schiavitù come quelli registrati nell’agro pontino dove si lavora a 50 centesimi l’ora per 13 ore al giorno. Servono i controlli. Questo aspetto continua ad essere l’anello debole della catena a difesa dei diritti dei lavoratori. Ritengo indispensabile che nella nostra regione si proceda con un report annuale delle attività di controllo incrociato tra forze dell’ordine, Ispettorato del lavoro, Agenzia delle entrate e Inps, per valutare in concreto l’efficacia delle misure che abbiamo introdotto».

@ciro_oliviero

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