L’Italia da una parte segue Orban e dall’altra la Germania
L’hanno chiamata Legge Schiavitù. È la legge, approvata dal governo ungherese, che consente ai datori di lavoro di chiedere (in realtà imporre) ai lavoratori di svolgere fino a 400 ore all’anno di straordinari. Tolti i festivi, parliamo di quasi 2 ore in più al giorno, o di un giorno in più a settimana. Ma non basta: la legge consente anche alle imprese di pagare questi straordinari fino a 3 anni dopo il loro utilizzo.
Il Paese col governo più feroce contro l’immigrazione (spalleggiato da altri governi europei, ed ora anche da quello italiano) si è accorto di avere un “piccolo” problema: scarseggia la mano d’opera. Il calo demografico, la fuga all’estero di molti giovani ungheresi (oltre 500.000 negli ultimi anni, spesso proprio perché restii alle politiche del governo) e, dulcis in fundo, il blocco dell’immigrazione, hanno portato ad una carenza di lavoratori in numerosi settori.
Una buona occasione per dire “scusate, ci siamo sbagliati”? Tutt’altro. La soluzione è spremere come limoni i lavoratori ungheresi. Primagliungheresi.
Se l’immigrazione è un problema (di cui i migranti, come sempre, sono vittime e non causa), questo è il fatto che su di essa si sperimentano, spesso, le peggiori politiche del lavoro. Col rischio, in realtà effettivo, che vangano poi estese ai lavoratori autoctoni. Ma in Paesi come l’Ungheria, ed ora come l’Italia, i lavoratori, invece di opporsi da subito, hanno lasciato fare, tanto riguardava i “neri”. Salvo accorgersi, in colpevole ritardo, che non è così. Autolesionismo.
Ma non dappertutto in Europa sono altrettanto autolesionisti. Nessuno pensa seriamente che le aperture ai migranti della Merkel avessero motivazioni etiche, o almeno solo tali. Avevano, ed hanno, motivazioni prettamente economiche. E non è un caso che la Germania problemi analoghi non ne ha. Così come non è un caso che la Germania abbia aperto le porte soprattutto ai siriani, che costituiscono un tipo di migrazione professionalmente più qualificata. Accoglienza e crescita economica: nel caso tedesco, un binomio vincente.
E in Italia cosa accade?
Da un lato ci si accoda all’Ungheria sulle politiche di blocco dell’immigrazione. Certo, si dirà: ne abbiamo già troppi arrivati negli ultimi anni. Ok, diamo per buona questa considerazione, pur sottolineando, checché se ne dica, che i nostri numeri sono restati inferiori ad altri Paesi, Germania in primis.
Cosa succede, dunque, con i migranti già arrivati in Italia?
- Con la nuova normativa, il cosiddetto Decreto Sicurezza, spingiamo un numero considerevole degli stessi verso l’irregolarità. Risultato doppio: il primo è che non possono essere assunti regolarmente dalle imprese italiane, il secondo è che vanno ad ingrossare le file dei lavoratori in nero, con conseguente calo delle retribuzioni medie, anche per gli italiani.
- I richiedenti asilo in accoglienza non potranno più essere inseriti in percorsi di formazione professionale, e persino in corsi di italiano. Dunque, coloro che otterranno una protezione si troveranno al gradino più basso della scala professionale, e, con molta probabilità, torneranno al punto 1, come un drammatico (e demenziale) gioco dell’oca.
- A differenza dei Paesi più seri, noi non abbiamo la più pallida idea del profilo professionale delle persone che accogliamo. E con la nuova normativa non l’avremo mai più. Provate a chiedere ad una Prefettura quanti ingegneri o medici accolgono in uno dei loro Centri di Accoglienza Straordinaria. Immaginerete la risposta. Riassumendo in breve: boh. Quindi, mentre le nostre aziende lamentano carenza di ingegneri, noi potremmo averne già sul territorio, al massimo da riqualificare, ma nemmeno lo sappiamo. E gli facciamo fare i braccianti. A nero, per giunta.
Dall’Ungheria, quindi, arriva una lezione da cui imparare molto, e che dovrebbe farci alzare le difese contro le politiche xenofobe.
Che la xenofobia sia frutto dell’ignoranza è assodato. Che sia anche autolesionismo (ad alcuni) è meno chiaro. Ora basta guardare all’Ungheria per accorgersene.
Sempre che siamo ancora in tempo.
Mauro Eliah
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