Dal rapporto emerge che in oltre 50 Paesi resta alto l’allarme della fame
L’emergenza da Covid-19 ha peggiorato le condizioni di molte persone. L’emergenza ha inciso sulle condizioni socioeconomiche e di conseguenza sulla capacità di spesa. Le famiglie che erano già in difficoltà prima della pandemia hanno riscontrato altre difficoltà. Tra queste anche quella di mettere il piatto a tavola. Nel mondo ci sono quasi 690 milioni di persone denutrite. 144 milioni di bambini soffrono di arresto della crescita. 47 milioni soffrono di deperimento. Nel 2018 5,3 milioni sono morti prima dei cinque anni, spesso a causa della malnutrizione.
Dall’Indice Globale della Fame 2020 – realizzato da Welthungerhilfee Concern Worldwide e curato da Cesvi – emerge che, a livello mondiale, la fame è in miglioramento rispetto al 2000. Resta però allarmante la situazione in 11 Paesi, tra i quali Burundi, Comore, Repubblica Centrafricana,Repubblica Democratica del Congo, Siria, Somalia, Sud Sudan e Yemen. Altri 40 appartengono alla categoria grave. Asia meridionale e Africa a sud del Sahara sono tra le regioni con i livelli di fame più elevata. L’Africa a sud del Sahara ha il più alto tasso di mortalità infantile al mondo, mentre l’Asia meridionale ha il più alto tasso mondiale di deperimento infantile. L’indice della fame è moderato il 26 Paesi e basso in altri 48.
Alla pandemia vanno ad aggiungersi l’impatto del cambiamento climatico sulla produzione, disponibilità e qualità del cibo, sicurezza alimentare globale. Tutti questi eventi hanno dimostrato che non sarà possibile raggiungere l’obiettivo di Sviluppo Sostenibile, conosciuto come Fame Zero, fissato per il 2030. Secondo il rapporto a questo ritmo, 37 Paesi non riusciranno nemmeno a raggiungere un livello di fame basso nella Scala di Gravità. L’approccio One Health presentato dall’Indice Globale della Fame 2020 evidenzia la necessita di affrontare in modo unitario le varie sfide che ci troviamo di fronte, per evitare future crisi sanitarie, risanare il pianeta e porre fine alla fame.