Per ragionare sulla funzione di rinserimento sociale delle carceri italiane è necessaria una consapevolezza della realtà carceraria
Nelle ultime settimane, i recenti fatti di cronaca hanno riaperto il dibattito sulle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane. E sulla funzione di rinserimento sociale che esse dovrebbero svolgere e delle modalità in cui dovrebbero attuarla. Discorso, questo, che spesso viene affrontato senza una vera consapevolezza della realtà carceraria, necessaria, invece, per discutere e prendere decisioni su un tema così importante per la società. Per tale ragione abbiamo chiesto all’esperta, ex art 80 O.P., la psicologa Viviana Macrì, che da anni lavora con i detenuti di uno dei più importanti carceri del nostro Paese.
In cosa consiste il suo lavoro?
«Sono una psicologa e psicoterapeuta, all’interno del carcere il mio ruolo è di esperto ex art. 80 O.P. quindi mi occupo dell’osservazione scientifica della personalità e del trattamento dei detenuti definitivi. Con frequenza si verifica anche la presa in carico dei soggetti giudicabili per fornire sostegno psicologico, poiché non tutti reggono il clima detentivo, la lontananza dai famigliari, restrizioni».
Quali sono le principali cause di recidiva?
«Le cause di recidiva che fino ad ora ho potuto osservare, le potremmo distinguere in due categorie interne/esterne. Tra i fattori interni vi è spesso la convinzione personale di saper fare solo reati, di non essere bravi e capaci in qualche altro mestiere. A volte si trovano soggetti che si considerano “vittime” di alcune dinamiche, come se non avessero altre alternative, quindi emerge la necessità di sopravvivere ed è possibile solo essendo “cattivi”. Inoltre tra i meccanismi interni c’è sicuramente l’impulsività in contrasto con la noia, volere tutto e subito: minimo sforzo, massimo guadagno. Nei fattori esterni vi è sicuramente lo stigma sociale dell’”ex-carcerato” che impedisce quindi alle aziende o datori di lavoro di assumere queste persone; la famiglia a volte può essere uno scoglio perché convinta che il famigliare non cambi mai. Lo scopo dell’intervento nel trattamento quindi diventa di sollecitare la persona a responsabilizzarsi rispetto a quanto agito, fornendo strategie alternative più funzionali. Si tratta anche di scardinare e ristrutturare credenze personali negative su di sé, sugli altri e sulla società. È sicuramente un lavoro complesso, lento e faticoso, ma può portare frutti».
Come si può dare vita ad un percorso con il detenuto affinché non ricompia reati?
«È utile precisare che il trattamento è rieducativo, ciò significa che deve tendere alla rieducazione del condannato. La parola “tendere” sta a indicare che gli attori di questo percorso non sono solo gli operatori nel fornire lavoro, studio, colloqui psicologici ecc, ma anche e soprattutto il detenuto stesso ha il dovere di partecipare al trattamento, quindi chiedere personalmente di iniziare un percorso rieducativo finalizzato a ridurre il rischio di recidiva. Nel sistema penitenziario si parla infatti di “offerta trattamentale”, cioè il complesso di attività che sollecita il condannato a riflettere sull’adozione dei comportamenti devianti fino ad ora adottati, verso altri socialmente condivisi. È un lavoro di squadra infondo e questo lavoro ha inizio principalmente nella relazione con gli operatori. È attraverso la relazione stessa e il dialogo che si permette al detenuto di riflettere sui propri valori-guida».
Il ruolo della società nei casi di recidiva?
«Premettendo che i fattori di recidiva possono essere molteplici a seconda del soggetto, come economici, affettivi, dipendenza da sostanze, ecc. Possiamo però attribuire un ruolo anche alla società per il rischio di recidiva, perché diventa un po’ fattore di mantenimento della condotta deviante. Basta scorrere i commenti delle persone sui social quando viene annunciato di un detenuto che per qualche reato ha ottenuto il beneficio del permesso premio. C’è molta diffidenza da parte della società e questo ha un effetto ulteriore sul detenuto. È paragonabile ad un’ulteriore condanna e ha un impatto notevole sul singolo, specialmente se dimittende. Può provare ansia, vergogna, difficoltà a stare in luoghi affollati, ha la continua percezione di essere osservato con diffidenza e giudicato negativamente. Questo alimenta la difficoltà a reinserirsi, a progettare e mettere in pratica il desiderio e la volontà di riprendere in mano la propria vita, cioè di autodeterminarsi. In breve, la stigmatizzazione è frequente, generale ed incisiva perché etichetta negativamente l’individuo in quanto deviante, dando vita ad un meccanismo autoprofetizzante, confermando alla società l’immagine che la società stessa ha di lui. La conseguenza è la tendenza all’isolamento o ripercorrere i passi verso la propria comfort zone con persone simili, reinnescando la recidiva. Ricordiamoci che l’essere umano non è fatto per stare solo, è un essere sociale e come tale ha bisogno di relazione. Trovo sia molto triste, per alcune di queste persone, sentire il bisogno di colmare il proprio vuoto in questo modo. È qui che la società fallisce perché si dimentica che il carcere rappresenta uno spaccato all’interno della società, costituito a sua volta da un insieme di vite ulteriormente spaccate».
Vi è una responsabilità sociale?
«Certamente. A partire dal micro-sistema fino al macro. È un contesto non disponibile all’ascolto e alla comprensione, ma solo a giudicare e condannare. Gli uomini che stanno in carcere e scontano una pena, sono stati prima di tutto fanciulli, ragazzi, adolescenti non ascoltati, e ora vengono rifiutati e rilegati dentro delle celle. Come se la società si deresponsabilizzasse. È paragonabile ad un genitore che non sa come gestire il figlio e lo chiude in stanza o lo colloca in qualche collegio, il messaggio che passa è: “non so che fare con te, ci pensino altri”. La criminalità è la vittoria sulle relazioni sane e normali che non sono state sufficientemente adeguate, a partire dall’infanzia, dai primi operatori sociali formativi, come la famiglia e la scuola. Perché la criminalità dà a quei giovani e agli adulti un’identità, un posto nel mondo seppur disfunzionale. C’è da interrogarsi su quale sia la nostra responsabilità, cosa non abbiamo fatto perché ciò accadesse e cosa continuiamo a fare».
Cosa dovrebbe cambiare, secondo lei, per poter garantire un vero rinvenimento nella società?
«Sarebbe utile una maggiore sensibilizzazione rispetto a cosa sia realmente il carcere, chi siano i detenuti, cosa effettivamente il sistema offre loro e ci si accorgerebbe che è veramente poco. L’ansia di chi varca i cancelli del carcere con in spalla i sacchi di anni di detenzione, può essere terribile e destabilizzante, specialmente se non si hanno riferimenti sociali e famigliari supportivi e stabili. Dov’è la società in quel momento? Siamo più presi a farci affascinare dal male, dai casi di cronaca nera, e poi? La vera sfida è quando la persona che ha commesso reato entra in carcere e quando esce. Occorre maggiore sensibilizzazione per abbattere lo stigma del “detenuto” per le assunzioni nelle aziende. Nonostante siano presenti agevolazioni economiche per chi li assume, come la legge Smuraglia (193/2000), resta tutt’ora un tabu. Non c’è abbastanza fiducia in queste persone, non si riesce a credere nella possibilità di cambiamento».
Di cosa ha bisogno il carcere per essere veramente il luogo di attuazione dell’art 27 della costituzione?
«In base alla mia esperienza e al ruolo che ricopro posso dire che sicuramente serve investire maggiormente sulla presenza di educatori, psicologi. Inoltre –cosa già in atto- è utile anche per gli agenti di polizia penitenziaria partecipare alla formazione riguardo l’ambito del trattamento, perché essi stessi compartecipano a questo compito».
Si pensa spesso che le pene più severe e certe siano strumenti di prevenzione. È vero dal suo punto di vista?
«Non le considero strumenti di prevenzione, quanto esecutiva e di contenimento, lì dove la società fallisce allora contiene e nasconde. È sempre stato così fin dall’antichità, eppure non è mai cambiato nulla. Nel senso che da sempre si commettono reati e la sola presenza dell’esistenza del carcere non diminuisce certo la volontà nel compierli. I numeri oggi parlano chiaro se si considera anche il sovraffollamento a cui stiamo assistendo. La prevenzione andrebbe fatta prima, osservando lo sviluppo del singolo e cogliendo i primi segnali di allarme, favorendo anche nelle piccole realtà di quartiere, attività ricreative e di sostegno in modo da fornire alternative funzionali».
Elisa Marino