Alla periferia di Ezhou, nella provincia di Hubei, nascerà un mega allevamento di maiali
Noi siamo quello che mangiamo. Volendo esprimere ciò che l’uomo da sempre rappresenta per il pianeta (l’unico) che abita, potremmo sintetizzare il tutto in questa celebre massima del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. Qualche settimana fa ha fatto il giro del web la notizia del grattacielo da ventisei piani in via di realizzazione in Cina che assieme a un fabbricato gemello presenta nella stessa area alla periferia di Ezhou, nella provincia di Hubei, è destinato ad accogliere un mega allevamento di maiali capace di ospitare fino a 1,2 milioni di capi. Notizia che stupisce relativamente poco chi segue la storia ben poco rassicurante degli allevamenti intensivi su cui la Cina investe ormai da decenni per garantire carne suina alla propria popolazione, il cui consumo complessivo è pari alla metà della carne di maiale del mondo.
Notizie del genere dovrebbero far riflettere seriamente non solo chi ha scelto da tempo un’alimentazione vegetariana o vegana, nel rispetto degli animali, che in allevamenti di questo genere se la passano veramente male, e dell’ambiente. Ad interessarsi maggiormente dell’impatto devastante che tali allevamenti possono generare in termini ambientali dovrebbero essere infatti anche tutte quelle istituzioni nazionali e internazionali chiamate a compiere scelte radicali in termini di contrasto ai cambiamenti climatici, e di grave rischio desertificazione che gli allevamenti e la conseguente agricoltura intensiva sono capaci di amplificare a dismisura.
Non si può ragionare infatti di allevamenti intensivi, il cui impatto ambientale collegato al solo smaltimento dei reflui e dei residui di macellazione è già di per se estremamente rilevante, senza analizzare ciò che gli stessi allevamenti producono in termini di agricoltura intensiva. Basti pensare ad esempio che proprio la Cina, per poter alimentare i maiali stipati in queste prigioni di ferro e cemento importa più della metà dei semi di soia prodotti nel mondo. Semi provenienti in misura massiccia da immense distese terriere dello Stato del Mato Grosso, in Brasile, nate dalla assurda campagna di deforestazione di ampie aree dell’Amazzonia innescata da quelli che lo scrittore Stefano Liberti ha definito i signori del cibo in un interessantissimo libro che traccia una panoramica piuttosto preoccupante dei danni che l’industria alimentare sta provocando al nostro pianeta. Semi che peraltro, oltre ad essere frutto di pratiche intensive che indeboliscono il suolo su cui vengono realizzate, devono viaggiare per decine di miglia di chilometri. Con tutto ciò che questo può rappresentare in termini di inquinamento collegato all’utilizzo di carburanti fossili.
Spesso le pratiche intensive vengono giustificate con lo spauracchio della necessità di rispondere alla richiesta crescente di cibo da parte di una popolazione mondiale in costante aumento. Omettendo sapientemente di dire che ad oggi nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di persone, contro gli 8 miliardi dell’attuale platea planetaria, e oltre il 17 per cento di tale produzione viene sprecata, con circa 900mila persone che patiscono la fame.
Non una maggiore produzione quindi, ma una maggiore educazione alle scelte alimentari e una maggiore responsabilità nella distribuzione delle risorse alimentari planetarie. Come previsto anche tra gli obiettivi della Agenda Onu 2030 dello Sviluppo Sostenibile. Di questo abbiamo bisogno.
Non siamo solo consumatori di energia, e non è solo la crisi energetica, l’eterna guerra di posizione tra fossile e rinnovabile, a governare i rincari che stanno pensando sulle famiglie ormai da anni. Siamo principalmente consumatori di cibo. Lo sanno bene gli industriali che dopo la crisi del 2008 hanno letteralmente contaminato il settore. E dovremmo esserne sempre più consapevoli noi tutti come persone che con le nostre scelte quotidiane possiamo fare veramente passi da gigante nel rispetto e nella tutela del nostro caro pianeta.
@VinsViglione